IL FENOMENO DELLA DE-INDIVIDUAZIONE E LA VIOLENZA IN GRUPPO
19 febbraio 2015 ancora violenza da stadio. In questa data era in programma l’incontro valido per i sedicesimi di Europa League tra Roma e Feyenoord: la prefettura di Roma si apprestava per ricevere i già tristemente noti tifosi della squadra olandese nella Capitale. Nonostante ciò, i famigerati tifosi olandesi non hanno perso l’occasione per mettere a soqquadro la città e, nella fattispecie, una tra le piazze più belle del mondo, piazza di Spagna andando così ad arricchire la lunghissima lista di manifestazioni di violenza, legate al mondo del calcio, che con lo spirito sportivo ha ben poche cose in comune.
Ma come mai avvengono da sempre episodi simili, senza riuscire a trovare una soluzione? Com’è possibile che il pallone sia, in senso lato, sinonimo di violenze e disordini? Quale spiegazione psicologica si può fornire a questo fenomeno?
La psicologia ha fornito da molto tempo la chiave di lettura di queste dinamiche e in larga parte è spiegata con la teoria della de-individuazione.
I primi studi a riguardo sono stati condotti a fine ‘800 da Gustave Le Bon, il quale individua nei comportamenti psicosociali della folla delle condotte di anonimità, contagio e suggestione guidata da pulsioni irrazionali. La folla, in tal senso, è capace di atti che i singoli componenti non avrebbero compiuto mai se presi singolarmente. La personalità conscia svanisce e subentra la “mente di gruppo”, “l’inconscio collettivo”; si manifesta anche labilità emotiva, ossia le persone nella folla acquisiscono un’impulsività esagerata.
In sostanza, viene meno il senso di responsabilità proprio di ognuno di noi, laddove esso sia inserito in un contesto di gruppo. Come se infrangere le leggi tutti insieme in una folla spartisca equamente il senso di colpa da interiorizzare, riducendolo individualmente. La soglia del confine della percezione tra il giusto/sbagliato diventa labile e perciò diventa più facile oltrepassarlo, come se inconsciamente ogni singolo soggetto pensasse “tanto non sono io a infrangere la legge, siamo tutti NOI”.
Un piccolo esempio che ognuno di noi avrà provato sulla propria pelle è probabilmente avvenuto quando da adolescenti andavamo a fare scherzi con il gruppo di amici/amiche, citofonando la notte ai malcapitati, o quella volta che abbiamo fatto i tuffi dalla scogliera, o magari quando marinavamo la scuola in gruppo. In questi casi, l’episodio è sempre partito da un soggetto (leader) ed è stato subito condiviso a mano a mano, da tutti gli elementi del gruppo, ma nessuno di noi, probabilmente, da solo, avrebbe mai citofonato la notte ad alcuno, né si sarebbe tuffato in solitaria da una scogliera, ecc.
Gli episodi di violenza, come anche durante le manifestazioni (pseudo) politiche hanno la stessa matrice, sebbene abbiano altre implicazioni motivazionali. Lo scopo diventa fare “rumore” per avere il controllo e l’attenzione. L’esistenza di un gruppo viene associata all’esistenza di un “nemico” da sconfiggere (es. ‘il calcio moderno’, ‘la tessera del tifoso’, ecc.). Si prova ad incutere paura e soggezione perché incutendo paura si riesce a controllare meglio chi sta di fronte. Il senso di devastazione diviene (falso) sinonimo di conquista, producendo gratificazione e appagamento del bisogno gruppale di affermazione della propria identità sociale nella società. Non a caso, i fenomeni violenti delle tifoserie olandesi, sono stati ben arginati in patria e cercano canali di sfogo dei loro impulsi all’estero.
ESPERIMENTO SUL TEMA: LA PRIGIONE DI STANFORD
Il più celebre esperimento sul tema della de-individuazione è quello della Stanford prison condotto nel 1971 dal prof. Philip Zimbardo dell’università di Stanford.
Il ricercatore adibì nei locali sotterranei dell’università la più fedele riproduzione possibile di una prigione e selezionò 24, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti. Questi furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine e avendo il compito di far seguire ai prigionieri una scaletta di compiti quotidiani, pur sottolineando di non usare mai violenza fisica. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di deindividuazione.
I risultati di questo esperimento sono andati molto al di là delle previsioni degli sperimentatori, dimostrandosi particolarmente drammatici. Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude. A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati, ma dall’altro un certo disappunto da parte delle guardie.
Secondo l’opinione di Philip Zimbardo, la prigione finta, nell’esperienza psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, era diventata una prigione vera. Assumere una funzione di controllo sugli altri nell’ambito di una istituzione come quella del carcere, assumere cioè un ruolo istituzionale, induce ad assumere le norme e le regole dell’istituzione come unico valore a cui il comportamento deve adeguarsi, induce cioè quella “ridefinizione della situazione” utilizzata anche da Stanley Milgram per spiegare le conseguenze dello stato eteronomico (assenza di autonomia comportamentale) sul funzionamento psicologico delle persone. Il processo di deindividuazione induce una perdita di responsabilità personale, ovvero la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni, indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l’espressione di comportamenti distruttivi. Come già espresso, dunque, la deindividuazione implica perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un’aumentata identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo: l’individuo pensa, in altri termini, che le proprie azioni facciano parte di quelle compiute dal gruppo.
Nel 2004, a seguito del caso delle torture nella prigione di Abu Grahib in Iraq da parte dei militari USA verso i prigionieri iracheni, l’esperimento di Zimbardo ritornò in auge e lo scienziato stesso scrisse un nuovo saggio sulle sue teorie riviste e corrette rinominando il concetto di de-individuazione in effetto Lucifero.
Per maggiori informazioni guardate il video a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=sZwfNs1pqG0
COME ARGINARE IL FENOMENO? POSSIBILI SOLUZIONI
Al di là delle più o meno funzionali soluzioni adottate dai Governi britannici e olandesi nella risoluzione del problema hooligans, in questo articolo fornirò le mie personali idee per contrastare ogni fenomeno di violenza di massa secondo il modello psico-educativo sociale.
1) Educare i singoli per educare le masse: Per evitare che la soglia del senso di responsabilità venga meno in questi contesti potrebbe essere molto utile svolgere, fin dalle scuole dei briefing tematici con attività formative indoor/outdoor esperienziali che mirino a consapevolizzare i ragazzi sulle possibili implicazioni negative che possono portare le dinamiche di gruppo
2) Riconoscere ed accettare il disagio: Ogni violenza cela un disagio. Riconoscerlo sotto forma di aiuto psicologico verso i singoli elementi del gruppo potrebbe essere funzionale nella riduzione dell’aggressività e della rabbia prodotta dal senso di frustrazione.
3) Evitare di rispondere alla violenza con la stessa moneta: Può sembrare una frase fatta, ma non è così. La violenza fomenta e produce violenza. La repressione violenta deve rimanere l’ultimissimo baluardo nell’arginare il fenomeno di condotte violente e solo se a scopo difensivistico. Anche se un episodio di violenza di massa viene contrastato da azioni repressive condotte da organismi di polizia e protezione civile o militare, alla lunga il risultato potrebbe essere quello di meditazione da parte del gruppo a vendette, o ritorsioni, o comunque fomenterebbero il senso di frustrazione che è l’ingrediente base dell’aggressività.
4) I modelli devono rimanere modelli positivi: Le società calcistiche, i calciatori, gli addetti sportivi, i media, devono, non solo attraverso parole, ma anche con condotte, atteggiamenti e simbolismi, lanciare messaggi e modelli di comportamento che incoraggino i valori sportivi e dissociarsi in modo perentorio da ogni forma di atteggiamento ambiguo/ambivalente che possano contenere messaggi subliminali che inneggino alla non accettazione della diversità, della condivisione di valori etici sportivi, di odio razziale, malsana competitività “campanilistica” sportiva.
5) Implementare l’attività dello psicologo nelle società calcistiche e sportive: attualmente, la normativa federale, impone alle scuole calcio l’obbligo di annoverare nell’organico societario la figura dello psicologo, per compiti di osservazione e selezione dei giovani ragazzi frequentanti la scuola calcio. Impiegare tale risorsa anche nella gestione delle tifoserie, di concerto con gli organismi di Pubblica Sicurezza e Prefetture, potrebbe essere l’anello mancante e il raccordo utile per ottenere un canale di comunicazione efficace con le frange violente.
Bibliografia e sitografia
Gustave Le Bon. Psicologia delle folle, Edizioni TEA, 2004, ISBN 978-88-502-0624-7
Philip G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008, 769 pp – ISBN 978-88-6030-157-4
Salvatore Cianciabella (prefazione di Philip Zimbardo, nota introduttiva di Liliana De Curtis). Siamo uomini e caporali. Psicologia della dis-obbedienza. Franco Angeli, 2014. ISBN 978-88-204-9248-9.
Silvia La Selva (psicologo PdS) www.osservatoriosport.interno.gov.it/aggiornamento_professionale/documenti/violenza_negli_stadi.pdf
www.settoregiovanile.figc.it/per_i_piu_piccoli/scuole_calcio.asp
www.figc.it/Assets/contentresources_2/ContenutoGenerico/99.$plit/C_2_ContenutoGenerico_33051_DettaglioAreaStampa_lstAllegati_Allegato_0_upfAllegato.pdf
www.gazzetta.it/Calcio/Europa-League/19-02-2015/feyenoord-vergogna-ultra-devastata-anche-piazza-spagna-roma-100945196568.shtml
All’esperimento sono ispirate le seguenti opere:
La gabbia, film di Carlo Tuzii del 1977
The Experiment – Cercasi cavie umane, film di Oliver Hirschbiegel del 2001
Black Box, libro di Mario Giordano
The Experiment, film di Paul Scheuring del 2010 (remake della pellicola di Hirschbiegel)
Prigioni della mente. Relazioni di oppressione e resistenza, libro di Adriano Zamperini (Einaudi, 2004 ISBN 9788806165895)
Effetto Lucifero, pièce teatrale a cura della compagnia Oyes, drammaturgia di Dario Merlini (2010)
The Stanford Prison Experiment, regia di Kyle Patrick Alvarez (2015)